Foraggiare gli ungulati in inverno: più un male che un bene

Nelle ultime settimane, in occasione delle recenti, abbondanti nevicate, la fauna si è trovata in una condizione di maggiore difficoltà.

Spinti dalla penuria di cibo, verificatasi alla fine di un inverno già duro, gli ungulati si sono avvicinati ancor più del solito ai centri abitati e alle strade del fondovalle, permettendo a molte persone di osservarli con facilità.

Molti osservatori sono stati colpiti dallo stato di debolezza di molti di questi animali e sono state anche sollevate “critiche” sul fatto che il Parco non sia intervenuto foraggiando gli animali.

Non si è certo trattato di disattenzione o, peggio ancora, di disinteresse da parte nostra per il benessere degli animali del Parco.

Le nostre scelte sono dovute al rispetto di quello che deve essere uno degli obiettivi primari di un parco nazionale e cioè la garanzia del mantenimento dei processi naturali ed evolutivi degli ecosistemi.

La fatica di muoversi nella neve profonda può ridurre le energie degli animali fino al limite della sopravvivenza

Oggi come oggi i rigori invernali costituiscono il principale fattore naturale di controllo delle popolazioni di ungulati. Un caso eclatante è quello della crescita continua della popolazione dei cervi, tale da creare degli squilibri ambientali in assenza di altri fattori di controllo. Se nel passato, quando i cervi erano pochissimi e ogni esemplare era “prezioso”, aveva senso foraggiarli in inverno. Oggi, a fronte di una popolazione ricchissima, ciò è controproducente sia per i cervi sia per l’ambiente.

Nelle valli camune e valtellinesi del Parco è oggi stimata una popolazione di oltre 4000 cervi. In questo ambito i cervi si concentrano maggiormente dove trovano le migliori condizioni di svernamento e, soprattutto, nel territorio del Parco Nazionale in cui la caccia è vietata e, quindi, il disturbo limitato. Un simile contesto porta a densità di cervo molto alte, tra le più alte delle Alpi e a una situazione in cui il cervo, da oltre quindici anni, è in equilibrio con le risorse di cibo presenti sul territorio: la popolazione non cresce e non cala, mediamente, e la sua numerosità è naturalmente controllata attraverso elevati picchi di mortalità in inverni particolarmente nevosi. Annualmente si verificano quindi fluttuazioni – del tutto naturali – in aumento o in diminuzione, in funzione della disponibilità di cibo.

Dobbiamo avere il coraggio di accettare le difficoltà cui gli animali selvatici possono andare incontro: per loro, per quanto ci possa sembrare strano, il nostro intervento sarebbe deleterio.

Scavare nella neve per raggiungere il cibo costa agli animali fatiche aggiuntive

Le nostre scelte sono inoltre dovute alla precisa conoscenza degli effetti del foraggiamento invernale.

E gli effetti possono essere, contrariamente a quanto si possa pensare, estremamente negativi.

Secondo quanto dimostrano studi ed esperienze in tutto il mondo, fornire alimento agli animali può addirittura ridurne la possibilità di sopravvivenza. Gli adattamenti degli ungulati di montagna fanno sì che durante l’inverno siano abituati ad alimentarsi con cibi molto ricchi di fibra grezza e quindi energeticamente poveri e meno facilmente digeribili. Alimenti cui gli animali non sono abituati sono meno assimilabili di quelli naturali oppure possono causare squilibri metabolici anche letali. Inoltre, la concentrazione di molti animali nei pressi delle mangiatoie aumenta la possibilità di trasmissione di malattie. Spesso, poi, gli individui dominanti impediscono l’accesso al cibo agli altri esemplari vanificando l’effetto del foraggiamento.

Per quanto spiacevole possa essere, la morte per fame, freddo o malattia fanno parte della realtà naturale delle cose. Sono, anzi, fondamentali per garantire l’adattamento delle popolazioni animali alle condizioni locali. Gli animali selvatici non vanno considerati alla stregua di animali “da affezione”, ma per quello che sono: animali che vivono nelle difficili condizioni naturali.

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